Quando fui invitata, nel luglio 2007, dalle
autorità di Cevo a portare la mia testimonianza di unica neonata sopravissuta a
un campo nazista, ebbi l’occasione di incontrare la comunità montana di quel
paese e con molti di loro nacque una calda e affettuosa amicizia.
Già molti anni prima, nel 1994, una donna cevese,
Enrichetta Comincioli, aveva portata la sua storia di ex deportata e in quella
occasione, appassionatamente, aveva raccontato le sue tristi vicende nei lager
tedeschi e si era augurata “che le nuove generazioni riflettessero su ciò
che era stato, per non dover più vivere la tragica esperienza da me sofferta e
che ho provato sulla mia pelle. Ho fiducia nei giovani ma ho anche tanta paura
perché all’orizzonte mi par di veder comparire nuovamente i sintomi
dell’antisemitismo, dell’odio verso il diverso. Loro, ma anche noi tutti, non
dobbiamo dimenticare la tragedia che ha coinvolto circa 12 milioni di persone,
che ha distrutto nazionalità, costumi, religioni, cultura e intelligenze per
affermare il più folle dei crimini.
NON DIMENTICATE questa pagina della storia:
tenete viva la memoria dei morti, altrimenti il loro sacrificio sarebbe
inutile:spero che le mie memorie rafforzino nei giovani i valori della libertà
e della giustizia, affinché quell’errore e quell’orrore non ritorni MAI PIU’”
Il sindaco di
allora. Ludovico Scolari, con intelligenza e con estrema delicatezza era
riuscito a sciogliere quella pietra dura che era il cuore di Enrichetta e
pazientemente, a poco a poco l’aveva condotta a una prima, anche se reticente
confidenza, poi ne era scaturita l’appassionata testimonianza orale, infine
Mimmo Franzinelli aveva registrato su cassetta la storia che divenne ben presto
un libro.
La
cittadinanza tutta, da molti anni, celebra con commozione sempre sincera e
partecipe, le date del 27 Gennaio (giorno della memoria per i tre cevesi uccisi
a Mauthausen) ma specialmente il 3 luglio, quando il paese intero fu dato alle
fiamme, quando ci furono dei morti, quando il terrore serpeggiò nelle viuzze
del paese, quando i fascisti, per rabbia, scaraventarono sui muri delle case migliaia
di proiettili, invasati e sadici, sorridendo.
Da sempre i cevesi hanno rispetto e riconoscenza
per i sacrifici dei civili e dei partigiani, che, uniti, seppere far fronte al
nazifascismo.
E
Pierferdinando Casini : “la memoria della storia ha bisogno di tempo per
riflettere, per discutere, per verificare: solo anche un pensiero che si fermi
su quei fatti, renderanno i nostri giovani uomini e cittadini migliori”
Tutto ebbe inizio con la conquista del presidio a Isola dove i fascisti
si erano rifugiati, sistemandosi nella centrale elettrica sopra il paese,
proprio sul costone opposto a Cevo.
Ecco la testimonianza del comandante Nino:
“Con alcuni compagni mi recai a Isola per disarmare la postazione e
sabotare la centrale, verso le 24 con un’astuzia presi come ostaggio
l’ufficiale di comando”
I partigiani garibaldini ebbero la resa fascista, ma qualcuno sparò un
colpo che colpì il partigiano ventiduenne Luigi Monella. Continua la testimonianza
di Nino: “Immediatamente tutti si arresero, ma un sergente fascista sparò un
colpo e colpì Monella, ebbi così un morto e un ferito grave, loro ebbero 5
morti,compreso l’ufficiale che stava tentando di prendere una bomba a mano”
Angelo Monella era un ragazzo che era tornato incolume dal fronte russo
e dopo tante sofferenze nella pianura sovietica, aveva subito abbracciato
l’ideologia garibaldina. Il suo corpo senza vita fu portato a Cevo a casa sua e
i compagni lo vegliarono a turno. Il funerale fu fissato nella mattinata del 3
luglio, l’intero il paese vi avrebbe partecipato, tutti i partigiani sostarono
a Cevo in attesa delle esequie in chiesa, abbastanza tranquilli perché, secondo
le parole del comandante “a Cevo il Comune è rappresentato da una Commissione
nominata in forma democratica, eletta dal popolo dopo che tenni alla
cittadinanza due discorsi, fra applausi e consensi. La zona oggi, 2 luglio 1944
è tranquilla! ”
Ma un informatore, tuttora ancora sconosciuto, da Cevo aveva dato la
notizia del concentramento di tutti i partigiani garibaldini in paese per il
funerale del partigiano Monella, alla caserma fascista di Breno, alla persona
del colonnello Valzelli. Qui, l’ex segretario comunale Gildo Rissetto, l’ex brigadiere
delle G.N.R. Vincenzo Melanti e il capitano fascista Guido Galassi, riunitisi
nella notte, decisero di dare l’assalto al paese.
Quella notte passò tranquilla con tutti i partigiani ospiti della
popolazione cevese, ma ancora prima che facesse giorno già salivano al paese
reparti fascisti armati, che, con un’azione di sorpresa e con un’impostazione
tattica concentrica d’assalto, speravano in una resa veloce dei partigiani.
Ma questi furono avvertiti immediatamente e tutti, sparpagliandosi nel
paese che conoscevano benissimo, seppero creare subito delle postazioni
perfette di difesa a Villa Trinacria e sul dosso dove sorgeva la colonia dei
gesuiti: tutti gli altri si misero a difesa delle case del paese: unico elemento
negativo la limitata disponibilità di munizioni.
Le colonne fasciste salivano verso il paese su camion: vi erano numerosi
elementi del battaglione paracadutisti della Guardia Nazionale e i giovanissimi
cadetti della Scuola Militare di Modena, comandati da due tenenti, Lumbau e
Scarpa e dal sottotenente Galanello: erano presenti sul posto sia il maggiore
Spadini che il colonnello Valzelli, i veri ispiratori dell’operazione.
Arrivarono in paese da tre direzioni diverse: da Grevo-Dosso, da Andrista-Pozzuolo
e da Berzo-Monte mentre una quarta piccola colonna continuava a piedi verso
Saviore.
Difensori di
Cevo morti nella battaglia :
Cesare Monella
Giuseppe Scolari
Domenico Polonioli
I difensori cevesi erano solo una ventina e male armati, ma tennero le
posizioni fino alla mattina inoltrata, poi si ritirarono. Ne approfittarono i
fascisti nel percorrere le strette viuzze e azionando i lanciafiamme e buttando
bombe incendiarie sulle case, pensando di bruciar vivi i partigiani e la
popolazione. La prima casa incendiata fu quella della famiglia Vincenti.
Scriveva Giacomo Matti nel
suo diario:
“E’ avvenuto ciò che temevo, alla più triste delle situazioni, è
salita quassù gente armata fino ai denti, gente, come essi dicono, servitori
onesti della patria.
Donne, bambini, vecchi scappavano, incalzati da questi onestissimi con
fucili mitragliatori. Essi entrarono nella casa del Monella, già disteso sulla
bara e pronto per il funerale. Bagnarono la salma con benzina e le diedero
fuoco, e le fiamme salivano impetuose, subito i partigiani ingaggiarono un
combattimento furioso nella casa, poi si ritirarono. Allora i fascisti
iniziarono a incendiare le nostre case e in quelle risparmiate dal fuoco si
videro questi onesti entrare, rubare, rompere e distruggere.”
Alle 5,30 fu dato l’allarme, alle ore 6
stabilimmo dei gruppi sparsi in diverse postazioni, qui abbiamo resistito fino
alle ore 9: il punto Villa stava sgretolandosi, perciò ci nascondemmo. Un compagno
ferito, fu inseguito da 7 fascisti lungo la via S. Virgilio riuscì a salvarsi
raggiungendo alcuni garibaldini, poi avvenne lo scontro feroce corpo a corpo,
un compagno, un certo Ferro, sebbene
ferito mortalmente riuscì a trascinarsi verso il cimitero, là fu trovato
cadavere solo dopo tre giorni, con l’arma in pugno.”
Tra i difensori si distinsero Francesco Gozzi e la moglie, mentre Aldino
Bazzana, reduce dal fronte greco-russo, difendeva una postazione al bivio del
Signor de la Rasiga: in paese, dalla cima del campanile Luigi Cominciali, un
vecchio bersagliere della prima guerra, con un fucile sparava contro un gruppo
di fascisti bloccati dietro un muretto: sceso dal campanile riacquistò
velocemente la via di casa e qui riuscì anche a spegnere un principio
d’incendio, poi si nascose in cantina. Domenico Polonioli, sebbene ferito,
sparò all’impazzata per qualche minuto contro gli invasori finchè non fu
colpito alla schiena. Il suo corpo rimase immobile, sotto il cielo azzurro per
ben tre giorni, alla fine fu ritrovato e si vide che l’eroico partigiano aveva
preferito spararsi piuttosto che essere ucciso dai fascisti.
Assunta Biondi e Maria Matti, allora bambine ricordano il terrore
provato quando in paese si sparse la voce che le squadre fasciste stavano
cercando il cecchino che aveva sparato loro dal campanile.
Racconta Assunta: “Cercavano
l’uomo con gli zoccoli che era sceso dal campanile, ma non lo scovarono: Io
corsi nei prati verso i Andrista”.
Maria Matti: “Tutti gridavano terrorizzati“ Arrivano, nascondetevi. Noi invece
ci portammo in chiesa, proprio davanti all’altare della Madonna e con mia
sorella e le nostre sorelline gemelle di un mese, ci sedemmo e vedemmo entrare
i fascisti che ci spinsero nuovamente fuori dalla Chiesa. Decidemmo così di
andare verso la Colonia, sentivamo delle urla, degli ordini, il paese bruciava
e noi bambini eravamo terrorizzati. Ricordo che passando davanti a un prato di
via S. Antonio vidi alcuni fascisti, ragazzi giovani, feriti che piangevano e
che sembravano decisi a non continuare quella guerra: vidi dei fascisti che avevano legato alcuni uomini del
paese e li interrogavano dove si trovavano i partigiani. I fascisti continuavano
a urlarci che ci avrebbero uccisi tutti: uno disse che non avrebbe detto nulla alla mamma
di quello che aveva visto e di quello che aveva fatto.”
Un ricordo della maestra Maria
Zonta erano le urla dei cittadini cevesi che gridavano a tutti “Arrivano
i sbindacc !” In seguito i fascisti ci chiusero a chiave in casa e noi
così, dal piano di sopra, vedemmo i tetti delle case, che erano di ardesia e di
legno, bruciare, e il fuoco era spinto dal vento: la porta d’ingresso non si apriva, poi passarono alcuni militi
fascisti che sentirono le nostre grida disperate, e riuscirono ad aprirla: noi
raggiungemmo un nostro fienile sopra il
bosco, tristemente vedevamo le fiamme salire dalla nostra casa, perché il nostro sottotetto era stracolmo di legna
per l’inverno.”
Nel pomeriggio piovve, ma il temporale non riuscì a spegnere gli
incendi. In paese verso l’imbrunire si radunarono le truppe fasciste, reduci
dagli incendi di Cevo e di Saviore.Tutti si guardavano intorno, fieri della
loro opera devastatrice, infatti le fiamme si alzavano verso il cielo in nuvole
nere, essi erano convinti di aver eseguito una perfetta rappresaglia e se ne andarono
felici.
In una casa, sofferente per la perdita del figlio bruciato nella sua
bara, il padre di Angelo Monella piangeva sui resti carbonizzati del figlio.
Altri morti ebbe Cevo quel giorno: essi furono il barbiere Giacomo
Monella assassinato mentre tentava di portare in salvo sua sorella, Giacomina
Biondi che morì per le ferite riportate durante la fuga da casa sua, lo
scalpellino Francesco Biondi, che, fuggendo dall’incendio del paese con la madre,
la moglie e i figlioletti, fu rintracciato in un fienile e ucciso, Cesare Efrem
Monella un renitente alla leva, il diciottenne Giovanni Scolari torturato e
fucilato vicino alla Colonia Ferrari, ed infine Domenico Polonioli, partigiano,
che preferì suicidarsi in un campo di segale intorno a Cevo piuttosto che
cadere nelle mani fasciste.
La colonna fascista che si era portata al paese vicino, Saviore, quello
stesso giorno si macchiò di un altro
assurdo assassinio e di numerosi
saccheggi: fu ucciso Domenico Rodella,
un invalido e reduce della prima guerra, dopo lunghe sevizie mentre il paese
veniva in parte dato alle fiamme e i negozi
venivano tutti sistematicamente saccheggiati dalle truppe comandate dal tenente
Lumbau.
Questi militi fascisti agirono nonostante fosse giunta loro la circolare
del colonnello Merico Zuccari, comandante brigata “Tagliamento” in cui “si
deprecavano gli atti di vandalismo.” Ma, continuava la circolare “se è
necessario bruciare un’intera città, bruciarla pure senza esitare, ma non si
asporti mai da nessuna casa un qualsiasi oggetto”. Così quei bravi giovani avevano obbedito alla lettera alla
circolare, ma dissero in seguito che "ne avevano letto solo la prima
parte", e
per alcuni ufficiali fu sentenziata solo una condanna simbolica e per molti
addirittura l’assoluzione dal Tribunale supremo militare il ventisei aprile 1954
(millenovecentocinquantaquattro).
Dopo alcuni giorni l’incendio terminò, tutto era bruciato, tutto
sembrava perso: tutta la popolazione sgomenta, tornando nelle strette vie del
paese, vide le case distrutte, fu uno spettacolo di rovina collettiva.
Molti piansero, altri, più orgogliosi, presero la zappa e incominciarono
a sistemare il terreno coperto di macerie, le donne pregarono, i bambini cercavano
i loro giochi, le madri le culle, gli uomini gli attrezzi del lavoro, non c’era
più nulla per vivere, solo qualche giorno prima tutti avevano acclamato alla
libertà e alla democrazia, ma quell’esaltazione sembrava lontanissima, allora
avevano pensato di essersi liberati dai fascisti. Erano tutti prostrati e
preoccupati quando ancora il nove di quel mese, i cevesi videro, con terrore,
arrivare dalla Valcamonica alcuni camion con molti fascisti e tutti furono
nuovamente presi dall’angoscia: si chiedevano quale sacrificio ancora avrebbe
dovuto subire il loro povero paese, ma poi si accorsero che erano solo due
camion e sul primo viaggiava l’ex brigadiere di Cevo, il fascista Vincenzo
Melanti: costui radunò l’intera popolazione e altezzosamente chiese a tutti di
consegnare i responsabili dell’uccisione del giovane militare Cerri, pena la fucilazione
di ostaggi.
Tutti rimasero silenziosi, alcuni cevesi furono presi e messi al muro,
ma il segretario del Vescovo che si trovava in paese riuscì a convincere i
fascisti a rilasciare gli ostaggi innocenti. Il capitano della G.N.R. telefonò
a Breno, al comando tedesco e dopo alcune discussioni, malvolentieri li
rilasciò ordinando ai suoi militi di
risalire sui camion. La popolazione capì che anche quell’incubo era finito.
Dall’intervista
di Ezio Margotti, registrata dall’Aned
il 1998:
“Quella notte mi fu fatta una foto, poi tutti in
baracca dove ci consegnarono dei pagliericci, ma insufficienti per tutti: fui allora
nominato distributore di pagliericci, li ho contati, erano proprio molto pochi.
Siamo stati sempre nella stessa baracca occupata la notte dell’arrivo, qualche
volta potevamo uscire dalla porticina e respirare. La notte si facevano due
corridoi per poter andare alle latrine, ci davano pane nero con uno strato alto
di muffa. Ricordo la notte che sono arrivato, il grande portone d’ingresso
della fortezza su cui si fermava in continuazione un fascio di luce, sentivo
abbaiare i cani, c’era gente che picchiava, gente che gridava, nessuno della
nostra lunga colonna in quei momenti poteva pensare razionalmente, c’era paura
e terrore, un’angoscia profonda”
Matti,
Gozzi e Vincenti cercarono di stare sempre uniti, infatti furono messi in
quarantena a Mauthausen nella stessa baracca, mentre i giovani Biondi, Groli,
Tiberti e Morgani, visibilmente in buone condizioni fisiche furono, pochi
giorni dopo, assegnati al sottocampo di
Melk, da cui furono liberati dai sovietici.
A questi nomi bisogna aggiungere Andrea Cervelli, arrestato a Milano e deceduto a Mauthausen il 22 febbraio 1945
Fonte: R.
Besutti sul mensile ”STORIA del 900” n. 4 del maggio 2001
Solo il
22 gennaio del 1952 si celebrò avanti la Corte d’Assise di Venezia il processo
in contumacia contro due ufficiali paracadutisti della RSI: Elio LUMBAU da Sassari detto anche con
dispregio “Il monco” e Mario SCARPA
da Salento detto “Marietta” ambedue latitanti e imputati di delitti commessi a
CEVO, CERVENO e SAVIORE nel giugno e luglio del 1944 ai danni di “partigiani”.
Le
vittime erano state Vincenzo Cappellini, Domenico Rondella, Cesare Monella (nei
documenti Moretti) e Giacomo Scolari: la corte non tenne nel dovuto conto che
Domenico Rondella era stato un combattente della prima guerra, aveva 50 anni ed
era invalido, ma al processo fu presentato come fiancheggiatore partigiano e
quindi ucciso per vendetta, perché nel paese di Saviore erano caduti in un
agguato il sottotenente Antonio Galanello ed i due paracadutisti della 1° compagnia “Mazzarini” di base a Rovato, FRANCO TOZZI e CLAUDIO VECCHIATO: il tenente
colonnello E. Vanzelli ordinò l’uccisione di ostaggi, responsabile della
fucilazione fu il capitano Elio Galassi, presente anche il cap. Lumbau.
Alcuni
valsavioresi si erano recati a testimoniare al processo contro Lumbau, ma analogamente
a quanto avvenne in altri processi contro fascisti colpevoli di crimini di
guerra, il tribunale militare usò ampia clemenza verso gli imputati. Si arrivò
anche al “non luogo a procedere” per
la “Non esistenza in vita” di Mario
Scarpa.
Vincenzo
Cappellini era stato un valoroso combattente nella compagnia mitraglieri della
Legione Leonessa. Venne preso sul tetto della sua casa e, portato a Saviore,
fucilato da Lumbau e altri paracadutisti. L’ordine di fucilazione fu data dal
maggiore Ferruccio Spadini, secondo il testimone Virgiglio Solerio di Camogli:
coinvolgimento naturale e strumentale in quanto Spadini era già deceduto.
Per le
uccisioni di Scolari e Monella, due diciannovenni renitenti alla leva, nulla
emerse al processo, anche se ci fu la commovente testimonianza di Amabile Viviani
sulla fucilazione di Scolari, “che fu
legato ad una sedia e ucciso. Un paracadutista poi sferrò un calcio alla sedia
che rotolò lungo un ripido pendio. I familiari fecero fatica ad aprire le sue mani legate”.
Si ringraziano per le interviste dirette:
Enrichetta Gozzi, Ludovico Scolari, Gianmario Monella
e Caterina Matti